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Indici della Rassegna

Titolo
CONFIGURABILITA’ DEL REATO DI RIVELAZIONE DI SEGRETO D’UFFICIO PER UN CONSIGLIERE COMUNALE: PRESUPPOSTI
Argomento
Diritto penale
Abstract
Riferimenti Giurisprudenziali: - Corte di Cassazione, sez. VI, sent. 30 settembre 2009, n. 39706
Testo
Il fatto, oggetto dell’impugnazione, riguarda il presunto reato di rivelazione di segreto di ufficio di cui all'art. 326 c.p., per avere, un consigliere comunale - e quindi pubblico ufficiale - divulgato documenti e comunicazioni di natura riservata, concernenti la gestione di una casa di riposo, a struttura convenzionata, di cui era venuto legittimamente a conoscenza in ragione del diritto di accesso, riconosciuto per tale qualifica ai sensi del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 54, rivelando tali notizie ad un giornalista per la pubblicazione sulla stampa, poi puntualmente avvenuta.
Escludeva il G.I.P. che i documenti de quibus rivestissero la qualifica di atti segreti, giacchè la nozione di segreto di ufficio, tutelato dall'art. 326 c.p., presupponeva l'esistenza di atti tipici, che per espressa disposizione legislativa - penale o extrapenale - fossero coperti dal requisito della segretezza, onde consentire all'interprete di valutare la sussistenza dell'elemento oggettivo del reato. Nel caso in esame mancava una specifica disciplina che come conseguenza e necessario corollario del diritto di accesso prevedesse l'obbligo del segreto di ufficio; la recente modifica di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 24, che aveva sottratto altri atti al diritto di accesso, nulla aveva innovato rispetto al regime previgente di cui alle L. n. 121 del 1981, e L. n. 668 del 1986, che nulla prescrivevano in merito all'obbligo della segretezza, onde ad avviso del giudicante, attesa l'inesistenza di uno specifico obbligo ed esclusa la legittimità di qualsiasi riferimento a quelle che regolano ipotesi simili, non ultima la disciplina sancita per gli impiegati dello Stato, non potendo equipararsi il consigliere comunale ad un impiegato civile dello Stato, si doveva prendere atto che il reato non si era perfezionato per carenza dell'elemento materiale.
Giurisprudenza pregressa, ma ancora attuale, è attestata sul principio che ai fini della configurabilità del reato il dovere di segreto, cui è astretto il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio, deve derivare da una legge, da un regolamento, ovvero dalla natura stessa della notizia che può recare danno alla pubblica amministrazione.
Tale principio correttamente è stato recepito dal G.I.P., quando ha ritenuto legittimo l'operato dell'imputato, consigliere comunale, nell'ottenere la disponibilità di quegli atti in ragione del diritto di accesso riconosciutogli per tale qualifica dall'art. 54 del Regolamento attuativo del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 43, sul funzionamento del Consiglio Comunale, trattandosi di atti del suo ufficio, e nel ritenerli svincolati da qualsiasi segretezza in assenza di una specifica normativa, che qualificasse segreti gli atti divulgati. Non è invece condivisibile l'opinione del P.G. ricorrente, laddove comprende nella nozione di "notizie di ufficio" non solo le informazioni, sottratte per legge o per regolamento alla divulgazione in ogni tempo e luogo e nei confronti di chiunque, ma anche quelle, per le quali la diffusione sia vietata dalle norme sul diritto di accesso, nel momento in cui esse vengono indebitamente diffuse, perchè svelate a soggetti non titolari del diritto o senza il rispetto delle modalità previste.
In realtà la L. n. 241 del 1990, ha rivoluzionato la disciplina degli atti e dell'accesso agli stessi, sancendo in definitiva il principio che tutto ciò che non è segreto è accessibile.
Essa contiene soltanto la regolamentazione del diritto di accesso e non anche di un parallelo obbligo di segretezza, regolando tale diritto unicamente in base all'interesse del richiedente, ovvero alla giustificazione addotta dallo stesso. Con ciò il legislatore ha inteso porre soltanto un freno all'ipotetico proliferare di richieste, che potenzialmente potrebbero paralizzare la Pubblica Amministrazione, esigendo il requisito dell'interesse, quale elemento regolatore del generico principio della completa accessibilità agli atti, restando quest'ultima comprimibile solo attraverso l'imposizione del segreto nei casi previsti dalla legge.
Ai consiglieri comunali non può, tra l’altro, estendersi la disciplina sancita per gli impiegati civili dello Stato dal D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, art. 15, come modificato dalla citata L. n. 241 del 1990, art. 28, che impone a tale categoria l'obbligo del segreto di ufficio sui provvedimenti o operazioni amministrative in corso o concluse, di cui sia venuto a conoscenza a causa delle funzioni, al di fuori dell'ipotesi e dalle modalità previste dalle norme sul diritto di accesso. Sul punto ha già adeguatamente risposto il G.I.P., che, ribadita l'ampiezza e i limiti del diritto di accesso e l'imprescindibilità della previsione normativa degli atti che devono rimanere segreti, ha richiamato la preclusione in materia penale di applicazioni analogiche in "malam partem".
Autore
Dott.ssa Marta Dolfi
Data
domenica 15 novembre 2009
 
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