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Indici della Rassegna

Titolo
MOBBING NON E’ REATO: il lavoratore per difendersi dalle vessazioni può chiedere il risarcimento del danno in un processo civile o fare una denuncia penale per maltrattamenti
Argomento
Lavoro
Abstract
(Corte di Cassazione, sent. agosto 2007)
Testo
Riferimenti Giurisprudenziali:
- Corte di Cassazione, sent. 29 agosto 2007, n. 33624

Il Fatto
Un’insegnante di sostegno instaurava un giudizio penale in quanto lamentava un’alterazione dell’umore e dell’equilibrio psico-fisico dovuta al comportamento del preside.
Il Gup emetteva, quindi, sentenza di non luogo a procedere nei confronti del Dirigente scolastico per non essere stato provato il nesso causale fra il disagio emotivo sofferto dalla donna e il comportamento del capo. Tantomeno la reiterazione delle vessazioni.

La Suprema Corte, con la sentenza in analisi, respingeva il ricorso della procura presentata contro la sentenza di non luogo a procedere emessa dal Gup.

Il Principio
Il “mobbing” non è un reato: il lavoratore, per difendersi dalle vessazioni del datore di lavoro o dei colleghi, può chiedere il risarcimento del danno in un processo civile o fare una denuncia per maltrattamenti in sede penale. In quest’ultimo caso dovrà essere provata la reiterazione della persecuzione e della discriminazione.

Hanno precisato i giudici, infatti, che nel nostro Codice Penale non esiste una precisa figura incriminatrice per punire il cosiddetto “mobbing”.
Si legge nelle motivazioni: “la difficoltà di inquadrare la fattispecie in una precisa figura incriminatrice, mancando in seno al Codice Penale questa tipicizzazione, deriva dalla erronea contestazione del reato da parte del pubblico ministero. Infatti, l’atto di incolpazione è assolutamente incapace di descrivere i tratti dell’azione censurata. La condotta di mobbing suppone non tanto un singolo atto lesivo, ma una mirata reiterazione di una pluralità di atteggiamenti, anche se non singolarmente connotati da rilevanza penale, convergenti sia nell’esprimere l’ostilità del soggetto attivo verso la vittima sia nell’efficace capacità di mortificare e di isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro. La prova della responsabilità dev’essere verificata procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi che può essere dimostrata per sistematicità e durata dell’azione nel tempo delle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa”.

Concludendo i giudici hanno precisato che al più il preside avrebbe potuto essere condannato per maltrattamenti, ma l’insegnante, nella fattispecie specifica, non è riuscita a provare la continuità nel tempo delle vessazioni subite e la correlazione con la patologia lamentata. Infatti, la figura di reato maggiormente prossima ai connotati caratterizzanti il cosiddetto mobbing è quella descritta dall’art. 572 c.p. (maltrattamenti) commessa da persona dotata di autorità per l’esercizio di una professione.

Si auspica che in tempi brevi il legislatore italiano provveda a dotare il nostro paese di una legge sul mobbing e dunque prevederlo come reato.
Del resto, sebbene vi sia una delibera del Consiglio d’Europa del 2000 che vincola tutti i Paesi a dotarsi di una normativa antimobbing, l’Italia è rimasta l’unico Paese a non aver provveduto in tal senso.


Autore
Dott.ssa Marta Dolfi
Data
venerdì 31 agosto 2007
 
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